Ass.ne Medievale Prata

Ass.ne Medievale Prata

Prata, la storia


DA LIBERO CASTELLO GHIBELLINO A COMUNITA' DELLA SOCIETA' SENESE
             Menzionato nei documenti subito dopo l'anno 1000, il castello di Prata, costruito su uno sperone roccioso dominante le valli della Merse e della Carse (che in pianura prende il nome di Bruna), era - dalle testimonianze giunte fino a noi e da quel poco che si può ancora "leggere" nell'abitato - un tipico fortilizio medievale. Nel punto più alto si ergeva il cassero, estremo rifugio in caso di assalto e residenza dei signori del castello; sul cassero, la torre, punto di vedetta su tutto il territorio intorno al castello e di segnalazione ottica coi castelli vicini (Boccheggiano, Sassoforte, Perolla); accanto, la chiesa (il titolo di S.Maria Assunta è documentato fin dal XI secolo); e tutt'intorno il borgo, cinto da una cortina di mura in pietra calcarea, con le botteghe degli artigiani e di quanti erano più strettamente interessati alla vita del castello. Una sola porta, forse con fossato e ponte levatoio, si apriva nelle mura, probabilmente nel luogo detto oggi "la Piazzetta".
            Signori del castello erano i conti di Prata: una famiglia imparentata con gli Alberti di Prato e forse, come loro, venuti in Italia nel X secolo al seguito degli imperatori Ottoni. Un po' per questa loro origine, ma soprattutto per cercare un contrappeso all'invadenza senese, i signori di Prata erano fedelissimi dell'imperatore, e quindi ghibellini. I loro nomi sono di chiara derivazione germanica - si chiamano Guglielmo, Gherardo, Rinaldo, Bertoldo - anche se li ingentiliscono soprannomi di suono toscano (e così Gherardo diventa Gaio, Bertoldo diventa Tollo). Dall'imperatore avevano originariamente ottenuto il feudo di Prata e, periodicamente, ricevevano la conferma di tale "privilegio" (nel febbraio 1244 da Federico II, nel maggio 1288 dal Vicario Imperiale). Confinava il territorio di Prata con quelli di Tatti, Roccatederighi, Boccheggiano, Montieri, Gerfalco, le Rocchette de' Pannocchieschi, Massa, Perolla.
            Scarsi i rapporti tra i conti di Prata e Massa (che nel 1225 si svincola dalla duplice tutela del Vescovo e di Pisa e si dà ordinamenti di libero Comune): sappiamo però che nella prima metà del XIII secolo i conti di Prata avevano un proprio palazzo in Massa.
            Più intensi, ma a fasi alterne, i rapporti con Siena. I signori di Prata - apprendiamo dai libri di Biccherna, accurato registro dell'erario senese - contribuivano con propri cavalieri e fantaccini agli eserciti di Siena: in particolare ciò avvenne nella guerra contro Firenze per il possesso di Montepulciano, dal 1229 al 1235. Un loro primo atto di sottomissione a Siena è registrato nell'agosto 1244, ed è seguito da numerosi altri (nel 1254, 1265, 1275, 1281). Le ripetute sottomissioni rivelano, naturalmente, altrettanti sollevamenti anti-senesi intermedi, o comunque periodi di raffreddamento di relazioni.
            Come gli altri signori della Maremma, i conti di Prata lottano per la sopravvivenza del loro dominio: è la lotta senza speranza del declinante mondo feudale contro l'emergente mondo dei Comuni borghesi. In particolare Siena, chiusa, dalla parte di Firenze, Arezzo e Roma da potenze comparabili o superiori, trovava invece nella Maremma una specie di "ventre molle", un naturale terreno di espansione. Tanto più che la Maremma costituiva anche lo sbocco al mare, costante aspirazione di un importante centro commerciale come Siena.
            Per questo i rapporti di Siena con Prata e gli altri castelli della Maremma non erano idilliaci. Essi poi peggiorarono decisamente quando Siena, nel 1270, divenne guelfa, abbandonando la parte imperiale ed espellendo varie famiglie di parte ghibellina. Inizia da quel momento una vera e propria guerriglia anti-senese dei ghibellini di Maremma.
            Dato che nel Medioevo la professione di uomo d'arme era tra le più qualificate e meglio pagate,  la possibilità di un castello, o anche di un gruppo di castelli coalizzati, di mettere in campo un sufficiente numero di armati era minima rispetto a quella di una città ricca e potente come Siena. Ciò nonostante i ghibellini della Maremma - la lotta vide protagonisti, assieme ai conti di Prata, i signori del Sassoforte e quelli di Elci, ambedue imparentati coi primi - danno a Siena del filo da torcere per quasi vent'anni.
            Gli episodi fondamentali sono l'uccisione, sotto Giuncarico, del guelfissimo e fedele amico di Siena Bernardino Pannocchieschi, signore di Perolla (febbraio 1275), cui fa seguito una spedizione militare senese. Prata si sottomette e consegna ai senesi il castello ed il cassero. Altra insurrezione nel 1280-81, alla quale partecipa, al fianco dei ghibellini della Maremma, un potente feudatario, il conte di Santa Fiora. Nella notte del 14 luglio 1281 i ghibellini, guidati dal fuoriuscito senese Nicolò Bonsignori, portano un audace attacco fino in piazza del Campo a Siena: ma il popolo della città non insorge, le milizie senesi reagiscono e gli attaccanti ghibellini sono costretti a ripiegare su Roccastrada. Mentre copre la ritirata del grosso rimane ucciso, nella zuffa notturna nelle vie di Siena, lo stesso signore di Prata, Gherardo.
            Prata si sottomette nuovamente, e il suo nuovo signore - Bertoldo detto Tollo, fratello di Gherardo - accetta nell'aprile del 1282 le severe condizioni senesi: guarnigione senese nel cassero e nella torre del castello, impegno di fedeltà a Siena, impegno di far pace coi Pannocchieschi amici di Siena e, soprattutto, impegno di prendere una moglie senese (sarà Pia di Ranuccio Malavolti, nella quale alcuni identificano la Pia dantesca). Sia per amore della moglie, o sia per realismo, fatto sta che Tollo prende a condurre una politica risolutamente filo-senese: tanto che, sicura della sua fedeltà, Siena dopo due anni dal patto con Tollo ritira la propria guarnigione da Prata.
            Ma proprio per la sua fedeltà a Siena, Tollo entra in urto coi tre nipoti (figli di Gherardo) Fredo, Niccolò e Ceo. Il 30 settembre 1285, Tollo è ucciso sul sagrato della chiesa di Prata, all'uscita della Messa, dai nipoti aiutati da altri uomini d'arme, tra cui - sembra - il famigerato Ghino di Tacco, signore di Torrita e di Radicofani. I messi inviati da Siena per chiedere, almeno, la consegna di Pia e delle due figlie sono insultati e respinti, senza essere neppure ammessi nel castello. Siena raccoglie allora un esercito, inviandolo contro Prata. Ma intanto l'insurrezione divampa in altri luoghi della Maremma, e la guerra si estende in varie parti della Toscana. Tra periodi di combattimento più o meno intensi, il castello di Prata resiste per quasi quattro anni all'assedio delle forze senesi, fino alla resa a patti nel settembre 1289. E' uno degli ultimi bagliori del ghibellinismo in Toscana.
            Da questa data, Prata entra a far parte stabilmente dello Stato senese, seguendone le vicende. In una serie di atti tra il 1293 e il 1321, i signori di Prata vendono al Comune di Siena i loro diritti feudali sul castello e sul territorio.
Fino alla guerra di Siena nel Cinquecento, Prata non è coinvolta in altri fatti d'arme. Le mura del castello vengono rifatte nel 1367 dal Comune di Siena. Peraltro il castello è preso d’assalto e saccheggiato nel 1455 dal capitano di ventura Jacopo Piccinino, in un’improvvisa scorreria. A seguito del saccheggio la comunità di Prata chiede ed ottiene la proroga dell'immunità dai debiti, esenzioni fiscali e l'usufrutto della propria corte, "essendo stati robbati et denudati in tutto d'ogni loro bene, salvo che del solo spirito loro".
            Il rapporto di Prata con Siena continua ad essere non facile. La comunità di Prata si sente marginale e indifesa. All'inizio di maggio del 1489 gli uomini di Montieri si dolgono a Siena che quelli di Prata abbiano invaso i loro confini e predato certo bestiame. Per metter pace la Balia spedisce due commissari, i quali però non riescono neppure ad accedere al castello e, minacciati di morte, devono fuggire a precipizio. Siena organizza allora una spedizione punitiva. Questa trova Prata vuota degli uomini che, per timore del castigo, erano fuggiti. Sono allora scacciate le donne e i bambini, diroccate le mura ed arse le case, salvo tre chiese e le case di tre uomini dabbene che avevano cercato di frenare la sollevazione.
Qualche tempo dopo (aprile 1492) i beni territoriali di Prata vengono ceduti all'ospedale di S. Maria della Scala in Siena mediante apposito contratto di compravendita, per il prezzo di 7.000 fiorini. Sono riservati i diritti di proprietà dei privati ed è esclusa l'ingerenza dell'ospedale nell'amministrazione della giustizia. Nel maggio del 1496 una bolla del Papa Alessandro VI concede all'ospedale di S. Maria della Scala il giuspatronato della chiesa di S. Maria del castello di Prata, comportante il diritto di proporre al vescovo i candidati alla nomina a parroco. I parroci di Prata sostennero spesso che tale privilegio dell'Ospedale comportava anche un obbligo di sostenere economicamente la parrocchia: una tesi rifiutata dall'Ospedale che, se dava talora qualcosa alla pieve di Prata, sosteneva però di farlo a titolo di pura liberalità
            Durante la guerra di Siena, Prata è conquistata nel novembre 1554 dalle truppe medicee-imperiali del marchese Carlo Gonzaga. Dopo la conquista gli imperiali mantengono in Prata un presidio, impedendole di ribellarsi (come invece poterono fare altre terre prese dagli imperiali, come Boccheggiano e Monticiano). La sottomissione formale di Prata al granduca Cosimo I avviene il 23 gennaio 1556 con atto pubblico, qualche mese dopo la resa di Siena (aprile 1555). 

LO STATUTO DELLA COMUNITA'
Nel periodo senese la comunità (il termine in quei secoli è intercambiabile con quello di “comune”) di Prata riceve un suo statuto, non dissimile da quello di altre comunità dello Stato senese. Lo statuto contiene norme civili, commerciali, penali, e disegna anche le istituzioni della comunità.
            Le strutture essenziali sono il vicario, i priori e il Consiglio. Il vicario è il rappresentante dell'autorità di Siena. Esso doveva essere cittadino senese, e la nomina doveva essere approvata da Siena. Ma dal 1492 Prata non ha più un vicario suo proprio: l'ufficio di vicario è esercitato per le cause civili dal vicario di Boccheggiano e per le penali dal podestà di Petriolo.
            Il vicario è "vero rettore e governatore di Prata". Egli è tenuto a leggere agli altri magistrati comunali, all'inizio del rispettivo mandato, le rubriche dello statuto attinenti ai loro doveri, "acciò che nessuno non possa allegarne ignoranza". Suo compito fondamentale è rendere giustizia in materia civile, penale e di danno dato, in primo grado (essendo sempre ammesso l'appello alle magistrature senesi). Ciò egli fa sedendo al palazzo di giustizia di Prata ogni "dì giuridico", "per infino ad ora di terza", cioè fino a metà mattinata (convenzionalmente, le ore 9): e, nelle procedure sommarie, ogni giorno a qualunque ora. Alcune cause, peraltro, sono di competenza di altri magistrati, in particolare dei sindaci. Contro le sentenze del vicario è ammesso ricorso ai priori.
            In materia penale, il vicario può emanare bandi e imporre pene per reprimere qualunque fatto che a suo avviso costituisca reato ("delitto, eccesso o malefizio"), anche se non previsto da norme penali esistenti: potere molto ampio, che differisce radicalmente dal concetto moderno della irretroattività della legge penale, e che peraltro viene esercitato insieme ai priori.
            A tutela del vicario e della solennità del suo ufficio è stabilito che per eventuali reati commessi in sua presenza mentre esercita le sue funzioni la pena è raddoppiata, e il vicario può procedere, diremmo oggi, per direttissima.
            Il vicario inoltre riscuote le imposte e dazi di ogni tipo, è responsabile della manutenzione delle vie e delle fonti, come pure del ripristino dell'esattezza di pesi e misure eventualmente irregolari.
            Altro organo fondamentale nella vita del Comune sono i priori. Essi sono espressione della comunità di Prata, essendo scelti dal Consiglio. Sono tre e durano in carica sei mesi. A turni bimestrali, il collegio dei priori è presieduto da uno di essi, che prende il nome di Console: egli dirige le discussioni e votazioni del Consiglio, parla e fa proposte al Consiglio a nome degli altri, ed ha una preminenza formale su di loro. Per la scelta dei priori, il Consiglio elegge, tra nove uomini designati dai priori in carica (tre per ogni priore), tre “imbossolatori” per i due anni successivi. Questi predispongono quattro liste ("polizze"), in ciascuna delle quali sono scritti quattro nomi, tre priori e un camerlengo: le liste sono poi immesse nel bossolo, che è conservato da un "massaro, a ciò deputato". In un medesimo bossolo non può esservi più di un uomo per casa, e in una medesima polizza non possono essere insieme padre e figlio, né due fratelli, né zio e nipote, né suocero o genero. Ogni semestre si provvede ad estrarre a sorte una delle quattro liste. Due mesi prima della scadenza del quarto semestre si provvede a eleggere nuovi imbossolatori e a “rifare il bossolo”.
            I priori hanno vasti poteri di governo, di controllo, amministrativi e anche giurisdizionali. Spetta a loro ("insieme con il vicario") convocare e presiedere il Consiglio e stabilire le materie da discutere: e per la validità delle riunioni del Consiglio è richiesta la presenza di almeno due di loro. Nel Consiglio hanno diritto di voto come gli altri consiglieri.
            I priori controllano le scritture del vicario nei libri del Comune, che sono loro affidati. Possono spendere fino a 40 soldi al giorno senza controllo di sindaci. Possono nominare ogni altra magistratura del Comune (salvo il camerlengo, eletto anche lui dal Consiglio). Ordinano la riscossione, ad opera del vicario, di tasse e dazi. Hanno (come anche il camerlengo) una speciale tutela legale, in quanto "non possono essere gravati per debito di Comune": ossia, se il Comune ha debiti, non ne rispondono essi coi loro beni. La loro amministrazione è soggetta a revisione da parte dei sindaci. Sono magistrati di appello per ogni sentenza del vicario.
            Il camarlengo è il tesoriere del Comune. Eletto anch'egli dal Consiglio per sei mesi nello stesso bossolo dei priori, ha il compito di incassare le entrate del Comune in denaro o in natura e di provvedere a tutti i pagamenti. Inoltre ha la cura di tutte le "masserizie" (beni mobili) e degli immobili del Comune. Particolarmente severa è, naturalmente, la revisione dei conti del camerlengo, che viene fatta alla fine del suo mandato dal vicario assistito da sindaci.
Infine, il Consiglio. Esso è composto secondo la formula "un uomo per casa", ciò che dà per Prata un plenum che oscilla, nei secoli, tra 100 e 150 persone; ma è raro che i presenti superino i 40-50. La convocazione del Consiglio viene fatta ad opera del messo del Comune, col suono della campana ("suonare a Consiglio") o con lettura di un bando in piazza. Per la validità delle sedute è necessario un numero minimo (che per Prata non sappiamo quale fosse). Per questo è fatto obbligo a tutti i consiglieri, salvo legittimo impedimento, di partecipare alla riunione, pena il pagamento di un'ammenda. Le votazioni in Consiglio avvengono con voto segreto, secondo la procedura senese dei "lupini bianchi e neri": a ogni consigliere è data una coppia di lupini, uno di ciascun colore, il bianco a significare naturalmente il "sì", il nero il "no" (non è prevista l'astensione); ciascuno poi lascia cadere nell'urna di votazione il lupino corrispondente al voto che intende dare, mettendo l'altro in un'urna di controllo. Il Consiglio non è valido se non con la presenza di almeno due priori. Nessuno può partecipare alle sedute del Consiglio quando si tratti di un fatto che metta in gioco un suo interesse personale.
            Il Consiglio prendeva decisioni di interesse per l’intera comunità. Sceglieva gli imbossolatori, e quindi, indirettamente, i priori e il camarlengo. Nominava il maestro di scuola e il predicatore della Quaresima. Decideva su vari dettagli di applicazione alla comunità di Prata di leggi e normative dello Stato senese.   
Per quanto non era previsto dallo statuto, la comunità di Prata rimaneva soggetta alle norme generali dello Stato senese. In particolare ciò era vero per tutte le norme penali relative ai reati maggiori, che erano di competenza esclusiva dei magistrati senesi.
            In questi anni Prata appare come una comunità povera (inchiesta Bertolini: "l'abitatori sono miseramente vestiti e peggio calzati"), stanziata su un territorio difficile (visita Corbinelli: "hanno la corte montuosa, salvatica e non molto fertile, e l'estate patono d'acqua"), con le sue leggi solo in parte scritte, in gran parte tradizionali e consuetudinarie, la cui vita sembra scorrere con ritmo immutabile attraverso i tre secoli dello statuto: e che tuttavia poco a poco, tra grandi angustie e sofferenze, arriva a svilupparsi, a elevare gradualmente il suo tenore di vita, ad aprirsi alla vita moderna.
Lo statuto di Prata, come gli altri della Maremma, cessò di applicarsi quando, il 17 marzo 1783, il granduca Pietro Leopoldo estese alla Maremma la riforma municipale già introdotta nel resto della Toscana. La riforma fu basata sulla creazione di comuni di vaste dimensioni, e Prata – che in un’altra regione sarebbe facilmente rimasta un comune a sé stante – venne inserita nel Comune di Massa


IL DOMINIO ECONOMICO DELL'OSPEDALE
            I secoli di vigenza dello statuto sono anche, in gran parte, quelli del dominio economico dell'Ospedale di S.Maria della Scala di Siena. I diritti dell'Ospedale erano stabiliti nell’atto di compera del 1492, e poi nei “capitoli” (accordi tra la comunità e l’Ospedale) del 1505 e del 1605. Le clausole della compera riservavano bensì agli abitanti di Prata la proprietà delle terre e case da essi "giustamente" possedute: ma proprio su questo avverbio si basò subito l'Ospedale per sostenere che gli uomini di Prata, passati da una signoria privata a quella del Comune di Siena, non possedevano, salvo limitate eccezioni, alcun titolo valido di proprietà ed erano anche privi di beni comuni e di usi civici, quali il diritto di legnatico nei boschi o di pascolo nelle bandite. Inoltre l'atto di compera stabiliva varie imposte a carico della comunità, che doveva pagare, oltre al censo del palio per la festa di S.Maria Assunta (16 lire annue), anche la gabella del mosto e una tassa di 40 soldi per ogni paio di buoi che lavorassero nella terra. L'Ospedale invece era esente dalla gabella del mosto, se non per le quantità spedite a Siena, ed aveva il privilegio di poter vendere fuori del contado senese, senza alcun pagamento di gabella o di dazio, le proprie bestie nate e allevate nel territorio di Prata, fino alla quantità di 100 bestie grosse e 200 porcine.
            Queste clausole già fanno rilevare la diversità di situazione tra l'Ospedale (ricco, esente da tasse e privilegiato) e la comunità di Prata (con poche rendite e facoltà e oppressa da tasse e limitazioni di ogni genere). Ma la sproporzione del potere economico aumenta ancora se si pensa al fatto che l'Ospedale possedeva i due mulini ad acqua di Prata, detti della Carse e del Canale (quest'ultimo era posto tra la tenuta di Nispanto, pure appartenente all'Ospedale, e l'oratorio della Madonna del Canale, nella valle della Carse: ne restano oggi pochi ruderi tra i rovi), ed inoltre il macello, il forno, l'osteria del Pianello; e tutto ciò in posizione di monopolio, essendo vietato ai privati di intraprendere simili attività o di aprire botteghe.
            Di qui una serie di lamentele e reclami degli abitanti di Prata durante il '500 e il '600, che portano a nuovi accordi tra la comunità e l'Ospedale, la cui posizione di privilegio però è solo marginalmente scalfita. Nei capitoli del 1505 all'indubbio vantaggio costituito dalla concessione agli abitanti di Prata di una banditella in uso gratuito per il pascolo dei buoi fece riscontro l'obbligo del pagamento all'Ospedale di una fida di 25 soldi per ogni bestia vaccina e di 2 per bestia minuta, pecorina o caprina (il cui possesso era limitato a 60 capi per abitante o famiglia). Vi era inoltre il divieto di prendere bestiame (in soccio o a stima) da altri che non dall'Ospedale, e di possedere bestie bufaline se non col permesso dell'Ospedale. In altre parole l'Ospedale intendeva riservarsi un saldo controllo dell'allevamento del bestiame, certamente l'attività più redditizia del territorio. Era poi confermata l'esclusione del diritto di legnatico nei boschi del territorio, "eccetto che per fuoco" (ed era già gran concessione). Infine per gli abitanti di Prata c'era un'altra pesante limitazione: il divieto di vendere i propri beni immobili ad altri che all'Ospedale, pena la nullità degli atti.
            L'accordo del 1605 contiene qualche miglioramento: anche il legname da costruzione può ora esser tagliato nei boschi di Prata, purché col permesso dell'Ospedale e dietro compenso; cade l'odioso divieto di vendere immobili ad altri che non sia l'Ospedale; e diviene lecito, dietro pagamento, comprare dall'Ospedale aree per fabbricarvi case dentro e intorno al castello. Ma nel complesso l'Ospedale mantiene la sua posizione di dominio assoluto sull'economia locale: anzi, è documentato, almeno fino ai primi del '700, un impoverimento costante della popolazione e un aumento dei terreni posseduti dall'Ospedale, essendo spesso costretti i suoi debitori (specie quelli che avevano preso bestie a soccio) a cedergli in pagamento dei debiti i loro pochi terreni e a regredire così da piccoli proprietari a braccianti.
            La presenza a Prata dell'Ospedale di S. Maria della Scala ebbe anche aspetti positivi. Tra l'altro, la grancia di Prata – che, come le altre dell'Ospedale, non era solo un'azienda agraria, ma anche un ente assistenziale - gestiva un ospizio di pellegrini e, in particolare in Prata, un brefotrofio per la cura dei bambini abbandonati dai genitori o dalle madri nubili. Al brefotrofio di Prata venivano portati bambini da tutte le zone circonvicine.
            Nell'insieme, però, tale presenza rappresentò un freno per l'economia del territorio, che ne fu liberata solo nell'ultimo quarto del secolo XVIII quando l'Ospedale, in ubbidienza alla politica leopoldina di progressiva riduzione delle manomorte civili e religiose, fu costretto a vendere a privati tutti i beni da esso posseduti in Prata.

PRATA VERSO L'UNITA' DI ITALIA
            Alla fine del Settecento dunque Prata esce dal dominio economico dell’Ospedale, ma perde la sua autonomia. Subito dopo intervengono la calata delle truppe francesi nella primavera del 1799 e poi – dopo la loro cacciata ad opera del moto del “Viva Maria” (luglio 1799) – il loro ritorno nell’autunno del 1800. Si producono allora una serie di episodi di guerriglia anti-francese ancor oggi male spiegati (il “moto di Prata”), ma probabilmente attribuibili a un generale malessere della comunità di Prata a seguito della perdita dell’autonomia, cui si aggiungevano le vessazioni e spoliazioni francesi.
I principali fatti furono l’imboscata tesa dagli abitanti di Prata e Boccheggiano a Massa Marittima (18 dicembre 1800) ad una colonna francese di circa ottanta uomini, che vennero presi prigionieri (e successivamente rilasciati, dopo un negoziato); un’altra imboscata, sempre degli abitanti dei due paesi, a un reparto di 230 soldati francesi nelle strette della Valle della Merse (24 gennaio 1801), con morti e feriti nelle file dei francesi, che ripiegarono su Siena; l’assalto a Massa (2 marzo 1801) di un gruppo di 80 pratigiani capeggiati da Giovan Battista Valgattarri, che mise in fuga una piccola guarnigione francese dandosi poi a saccheggi e grassazioni. Infine le autorità francesi decisero la repressione, e un battaglione francese diede l’assalto al paese (10 marzo), saccheggiandolo poi per tre giorni. Gli abitanti in maggior parte si diedero alla macchia. Dopo qualche altro episodio minore di guerriglia e brigantaggio, il moto si esaurì quando il generale Gioacchino Murat comandante francese in Toscana emanò (10 aprile) un’amnistia a favore degli insorti, che rientrarono in Prata e si riconciliarono coi massetani.
            Prata partecipò successivamente alle vicende risorgimentali. Essa contribuì nel marzo del 1849 con una decina di giovani ai 50 volontari massetani che al comando di Annibale Lapini si recano a Firenze per dar manforte al governo provvisorio del Guerrazzi (i volontari furono poi sciolti dopo la sconfitta di Novara per evitare spargimento di sangue). Due giovani di Prata, arrestati subito dopo per aver innalzato in paese l’“albero della libertà”, furono compagni di detenzione del Guerrazzi nella fortezza di Volterra. Nel plebiscito per l'unione della Toscana alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II (11 marzo 1860), Prata diede tutti i suoi 511 voti all’unione. Nel luglio 1866, coi volontari garibaldini nel Trentino vi sono quasi cento giovani di Massa e dintorni (compresa Prata), che combattono a Condino e a Bezzecca coi reggimenti VII e IX al comando di Menotti Garibaldi. Tra gli altri è il caporale Andrea Pazzagli di Prata, che si guadagna una medaglia d'argento al valor militare. Più tardi, malgrado gli fosse stato amputato un braccio, lo stesso Pazzagli riesce a salvare una bambina in un torrente, guadagnandosi una nuova medaglia (al valor civile). Infine, volontari di Prata fanno parte della sezione massetana della colonna garibaldina Guerrazzi, composta da circa 250 uomini, che effettua un tentativo, non riuscito, di invasione dello Stato pontificio nella zona di Montalto di Castro e Farnese (ottobre 1867).

IL PAESE ODIERNO
            Nel punto più alto del paese, dove sorgeva il cassero, sono ancora leggibili in varie case notevoli tratti di muri medioevali di conci di pietra squadrati e, nell’immobile ancor oggi chiamato “il Palazzo”, una porta coronata da un arco che prosegue in una volta trecentesca ben conservata. Nello stesso luogo è visibile ciò che pare essere una torre mozzata. Accanto alla presunta porta del castello, segnata anch’essa da pilastri trecenteschi, è stata recentemente riportata alla luce un’ampia CISTERNA risalente all’epoca della conquista senese del castello. Nei pressi è la chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta, documentata anch’essa dall’XI secolo, ma completamente ricostruita alla fine del Settecento. Sul portale della chiesa, lo stemma dell’Ospedale della Scala ricorda che questo aveva, come sopra ricordato, il giuspadronato sulla chiesa. Nella canonica è conservato un lezionario del XIII secolo , recentemente restaurato. Sull’altare centrale è collocato un dipinto del 1680 di ignoto autore, raffigurante la Madonna delle Grazie o del Canale cui la popolazione è particolarmente devota. La festa della Madonna del Canale cade il lunedì di Pentecoste e la terza domenica di settembre, ma la celebrazione solenne è triennale, e comprende il trasporto in processione dell’immagine fino ad un piccolo oratorio in un fosso a breve distanza dal paese, dove secondo la tradizione la Madonna sarebbe apparsa. La cerchia delle mura del castello è poco leggibile: solo è conservata a sud un piccolo bastione circolare trasformato in magazzino (la “Casa Tonda”), probabile resto del rifacimento delle mura del 1367. In posizione decentrata, fuori dalla cerchia delle mura e sul sito dell’antico cimitero, sorge la cappella della Misericordia, risalente al XIX secolo, in chiaro stile neoclassico.

LA POPOLAZIONE NEI SECOLI
Il castello medievale poteva avere tra i 300 e i 500 abitanti: sono 137 gli abitanti di Prata  (i capifamiglia?) che nel 1306 giurano fedeltà a Siena. In seguito abbiamo stime quattrocentesche più basse (30-40 famiglie, per 200-300 abitanti), dovute probabilmente alla decimazione della Peste Nera del 1348, che provocò anche l’interruzione dell’attività mineraria. La migrazione a Prata degli abitanti di Perolla nella seconda metà del Cinquecento fece aumentare nuovamente gli abitanti, che oscillano fino alla fine del Settecento tra i 600 e gli 800. Dall’inizio dell’Ottocento le migliorate condizioni igienico-sanitarie provocano un graduale aumento. Prata entra nel Regno d’Italia con oltre 1600 abitanti e raggiunge il suo livello record col censimento del 1911 (2455 abitanti). Segue il lento declino, dovuto all’emigrazione verso la costa e, dopo l’ultima guerra, alla contrazione delle attività minerarie. Il paese conta oggi circa 700 abitanti.